IL DELITTO DI GIARRE. LA STORIA DEI DUE ‘ZITI’ DIVENTA UN DOCU-FILM

Quasi abbracciati e mano nella mano, uccisi entrambi da colpi di pistola alla testa. Li hanno ritrovati così, il 31 ottobre 1980 – dopo due settimane di ricerche senza esito – sotto un pino marittimo nella ‘Vigna del Principe’ a Giarre (Catania), i due ziti (fidanzati, ndr) come li chiamavano tutti nel paese alle pendici dell’Etna. Giorgio Agatino Giammona, venticinque anni, e Antonio Galatola, detto Toni, quindici anni, erano scomparsi dalla cittadina siciliana, in provincia di Catania, il 17 ottobre 1980. Tra le voci che si fecero strada da subito, l’ipotesi che i due ragazzi fossero fuggiti insieme e che Giorgio, da tempo additato quale puppu cu bullu, un “frocio patentato”, avesse traviato un giovane innocente inducendolo a fare una fuitina.

Dopo il ritrovamento le forze dell’ordine pensarono subito ad un caso di doppio suicidio, quindi di omicidio-suicidio. La mano destra di quello che verrà identificato come il cadavere di Giorgio stringe una busta inzaccherata con una lettera di cui si riesce a malapena a leggere le parole: “Io e Toni abbiamo trovato la pace… Mamma perdonaci”. All’improvviso, la misteriosa confessione di un tredicenne, Ciccio Messina (cugino di Toni), che si autodenuncia come diretto responsabile per poi ritrattare immediatamente. Non è così, però, che sono andate realmente le cose. Non a caso, infatti, le indagini si infransero, tra molti punti oscuri, contro un muro di silenzio e di omertà.

Oggi, la loro storia diventa un docu-film, in onda in prima visione assoluta il 28 giugno – cinquantaquattresimo anniversario dei Moti di Stonewall – alle 22, su History Channel (Sky 411) e su Crime+Investigation (Sky 119) e presentato in anteprima al ‘Maxxi’ di Roma, alla vigilia del Roma Pride (10 giugno 2023). “Il delitto di Giarre” è una produzione originale HISTORY Channel e Crime+Investigation, realizzata da B&B Film per A+E Networks Italia. Prodotto da Raffaele Brunetti e scritto da Gino Clemente e Lorenzo Avola, con la regia di Simone Manetti e la supervisione di Francesco Lepore, che è anche voce narrante.

È proprio il giornalista e scrittore Francesco Lepore – autore dell’omonimo libro Il delitto di Giarre. 1980: un ‘caso insoluto’ e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia, la cui seconda edizione aggiornata edita da BUR Rizzoli è disponibile dal 30 maggio – a raccontarli presentando il docu-film. «Quella di Giorgio e Toni è la storia di amore e di morte di due giovani scomparsi nel nulla e ritrovati insieme, scarnificati e abbracciati l’uno all’altro. Con il libro e con questo docufilm si fa luce su un delitto di onore per lavare nel sangue l’onta dell’omosessualità», spiega.

Frutto di una meticolosa ricerca e particolari inediti sulla storia di Giorgio e Toni, il docu-film – che prossimamente diventerà anche un podcast realizzato da Radio 24, in collaborazione con HISTORY Channel e Crime+Investigation, disponibile su tutte le piattaforme audio – ospita il racconto di testimoni di eccezione come Enza e Rosita Galatola, sorella e nipote di Toni, che parlano di «una ferita ancora aperta e mai rimarginata», e quella di padre Diego Sorbello, «un cappuccino con “metodi alla Padre Pio”, per i toni di rudezza che voleva celebrare i funerali dei due ragazzi in maniera congiunta ma gli fu impedito dai familiari si opposero».

Ma non solo. Il docu-film, della durata di 90 minuti, oltre a presentare un’accurata ricostruzione dei fatti e a fornire, attraverso interviste esclusive, nuovi elementi e dettagli per tentare di far luce per la prima volta sul caso, racconta anche la protesta dei/delle militanti del FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) che scaturì proprio da quel tragico episodio e che contribuì a cambiare sensibilmente l’opinione pubblica, messa per la prima volta di fronte alla tragica realtà di due ragazzi uccisi per il solo fatto di amarsi. Una reazione che accelerò la nascita a Palermo di una storica associazione, l’Arcigay, con la quale inizia la seconda e nuova fase dell’attuale movimento LGBT+, tappa fondamentale di un lungo cammino che nel nostro Paese deve ancora essere completato, per una piena accettazione e tutela dei diritti civili.

A raccontare quelle pagine di storia del movimento e del Paese, ecco le testimonianze di Attilio Bolzoni, giornalista con il quale il presunto assassino tredicenne ritrattò la sua confessione, di Paolo Patanè, ex presidente di Arcigay nazionale e conoscente di Giorgio e Toni, di Lia D’Urso, attivista lesbica e cofondatrice del FUORI! di Catania, e di Vincenzo Scimonelli, cofondatore del primo nucleo di Arcigay, di Franco Grillini, leader storico del movimento LGBT+, primo presidente di Arcigay nazionale ed ex parlamentare, dell’ex deputata del PCI, Angela Bottari e di Pina Bonanno, attivista trans e cofondatrice nel 1980 del MIT – Movimento Italiano Transessuali (oggi Movimento Identità Transgender) «che seppe coinvolgere la politica e metterla alle strette».

Rivendicazioni, quelle che il movimento portò avanti dopo i tragici fatti di Giarre, che tornano in piazza oggi con il Pride capitolino e con tutti quelli che per tutto il mese di giugno (mese dell’orgoglio LGBT+) coinvolgeranno tantissime città italiane, portando con sé nelle piazze anche la memoria di Toni e Giorgio, i due ziti uccisi perché si amavano.

Spunti di lettura: “Io, una bookstagrammer per amore dei libri”

Da una parte c’è Titti, una quasi trentenne laureata in lingue con una spiccata propensione verso tutto ciò che riguarda la comunicazione (non a caso, è anche giornalista professionista e addetta stampa e SMM della casa editrice “Cento Autori”). Dall’altra, c’è @spunti_di_lettura, la lettrice vorace che ha deciso di condividere sui social non soltanto i testi che legge ma anche le riflessioni che nascono dalle sue letture.

  © Spunti di lettura – Titti Pentangelo

Difficile – anzi, quasi impossibile – ormai separare l’una dall’altra. Titti Pentangelo, infatti, oltre che una giornalista, è una bookstagrammer. Quella che a molti suonerà ancora come una parola bizzarra è invece da qualche anno una realtà consolidata. I cosiddetti “influencer della lettura”, appassionati di libri che attraverso Instagram (il termine, infatti, nasce dalla crasi tra book – libro, ndr – e instagrammer, ossia utente del noto social network di casa Meta) diffondono contenuti, commenti e recensioni librarie. Il fenomeno si sta estendendo rapidamente anche agli altri social come YouTube (dove troviamo i booktuber) e TikTok (soprattutto tra i giovanissimi) ma lo zoccolo duro resta Instagram. Quale occasione migliore del 23 aprile (data in cui ricorre la morte, nel 1616, di tre pilastri della cultura universale: Miguel de Cervantes, William Shakespeare e Garciloso de la Vega), Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, nata sotto l’egida dell’UNESCO nel 1996 per promuovere la lettura, la pubblicazione dei libri e la tutela del copyright, per conoscere una figura che negli ultimi anni si è fatta spazio nel panorama culturale coniugando la passione per la lettura e il mondo dei social?

«Se Instagram è lo spazio, spesso neanche l’unico, la protagonista è sempre la lettura. Poi, ci sono io, con la mia instancabile curiosità e la voglia di fare rete», precisa raccontando la genesi di ‘Spunti di lettura‘, il suo “alter ego” social librario che, dal 23 gennaio 2018, «è diventata una community molto attiva, popolata da gente che legge o da chi vorrebbe farlo ma ha bisogno di qualche spinta in più».

Una passione, quella per la lettura, che coltiva da sempre e che è cresciuta con il passare degli anni. «Da bambina – racconta – mi incantavo davanti le vetrine della libreria di quartiere e con qualsiasi scusa strappavo ogni giorno a mia nonna qualche minuto da trascorrere tra gli scaffali. Sicuramente è tutto merito suo se, ancora oggi, i miei occhi si riempiono di meraviglia non appena incrociano una copertina. Mi leggeva le favole e mi teneva per mano alla scoperta di un mondo che, ora che lei non c’è più, colma, in parte, un enorme vuoto. Ormai, penso di aver preso una specializzazione in reading compulsivo: riesco a leggere anche mentre mi asciugo i capelli. D’altronde sono dei gemelli: per noi non esistono problemi, ma soltanto soluzioni».

Perché, allora, non condividerla con gli altri, magari attraverso i social? «Su Instagram adoro condividere le mie letture e aggiornare chi mi segue. Creare contenuti vuol dire sposare la molteplicità: bisogna scattare foto per i post ma anche registrare stories o condividere dei reels. Ogni profilo ha le sue regole. Per me, ad esempio, sono banditi gli spoiler. Mi piace coinvolgere le persone, far capire loro che il nostro non è per forza un hobby solitario, anzi. Il bello arriva proprio quando se ne parla insieme, allora sì che vengono fuori riflessioni, commenti e, insomma, ça vans sans dire, spunti. Sincerità e tanta passione: queste le parole chiave sul mio profilo. Chi mi segue lo sa bene. Parlare di libri sui social vuol dire condividere le proprie impressioni e aiutare chi non ha il tempo per farlo a districarsi tra promozioni, nuove uscite e succosi eventi ai quali partecipare. Bisogna fare rete e abbattere le differenze».

  © Spunti di lettura – Titti Pentangelo

Dirette, post e stories con contenuti sono graficamente curati e accattivanti e una narrazione piacevole, immediata e mai banale diventano lo strumento per approcciarsi con una comunità variegata, fatta di appassionati ma anche di neofiti che da ogni parte del mondo si approcciano con curiosità alle novità editoriali ma anche ai grandi classici. «Nel tempo – racconta – ho conosciuto tante persone diverse. Non penso esista un identikit preciso. Chi sceglie di affidarsi a un profilo come il mio lo può fare tutti i giorni ma anche saltuariamente. Può essere giovane, ma anche scoprire i social in un secondo momento. Un minimo interesse per la lettura dev’esserci per forza, ma, incredibile a dirsi, ci sono anche persone che l’hanno coltivato proprio grazie a queste nicchie. Provo ad offrire consigli personalizzati, ma soprattutto a non fermarmi ai semplici dettagli sulla trama che possono trovarsi ovunque. Chi fa parte della mia community cerca quel qualcosa in più che permetta di capire se un determinato testo rientri nelle proprie corde oppure no. Info su tematiche, stile, struttura: tutto quello che non sempre viene scritto nel retro di copertina. Poi, sono la regina dei gruppi di lettura. Tra biografie, storie vere e libri cult quest’anno mi sto dando parecchio da fare. Per partecipare basta chiedere: è tutto online».

La virtualità non toglie, però, il piacere del confronto e del rapporto umano e la comunicazione è tutt’altro che unidirezionale. «A me non piace chiamarli followers. Sono, prima di tutto, persone. Con interessi e gusti molto simili ai miei, ma spesso anche diversi. Certo, se hanno detestato “Cime tempestose” o “Il giovane Holden”, inizialmente potrebbero esserci dei conflitti, ma il bello è anche questo: contagiarsi a vicenda, condividere punti di vista diversi, parlare di libri h24. Questo è quello che loro cercano approdando sul mio profilo e, ovviamente, quello di cui anche io ho bisogno seguendo chi crea contenuti come me o chi, semplicemente, non riesce a non vivere tra le pagine e quotidianamente sente la voglia di parlarne».

E nulla vieta di uscire dallo schermo. «Le fiere del libro sono sempre una gran festa. Nei giorni scorsi “Napoli Città Libro”, presto il “Salone del Libro di Torino”. Andarci non più da semplice lettrice vuol dire abbracciare persone con cui parli tutti i giorni, dare un volto a chi sui social interagisce senza mostrarsi troppo, abbattere lo schermo e conoscersi meglio. Da quando ho aperto il mio profilo, ad esempio, son venute fuori diverse possibilità che con la vita digitale hanno ben poco in comune. Nella Mondadori della mia città, Castellammare di Stabia, ho creato un club del libro che si riunisce una volta al mese. Penso sia l’esempio lampante di come i social possano avere un significativo impatto alla realtà, senza dimenticarci mai quanto sia importante non lasciarsene fagocitare, non mettere mai in secondo piano la vita, quella vera».

  © Spunti di lettura – Titti Pentangelo

Un impatto, quello dei social, che non riguarda solo la nostra quotidianità ma anche il mercato. La figura del bookstagrammer viene, infatti, spesso paragonata a quella dell’influencer in grado di influenzare le vendite di alcuni titoli a discapito di altri. «La spinta di questi anni – spiega – sembra andare proprio in questa direzione. Ormai anche le case editrici hanno capito quanto sia importante essere presenti sui social e attirare l’attenzione di chi, meglio di loro, ne comprende i meccanismi. Certo, i libri hanno una profondità che è difficile da rendere in uno spazio che ti chiede di esser breve e non troppo pedante, ma tutto sta sempre nel come fai le cose. Il pericolo di soccombere ai trend e a un algoritmo in perenne trasformazione è dietro l’angolo, ma bisogna anche ricordarsi che la vendita dei libri avviene soprattutto grazie al passaparola e che i social inevitabilmente lo amplificano. Basta dare un’occhiata ai titoli in classifica per capire quanto i social, attualmente, stiano condizionando il mercato». E, negli anni, non sono mancate le polemiche in merito (tra tutte quella nata da un articolo di Massimiliano Parente), tra chi si chiede: se il bookgrammer ‘influenza’ il lettore, chi (o cosa) influenza il/la bookstagrammer? «In primis, le altre figure che popolano il mondo che frequenta. Seguo persone che hanno gusti a me affini e, inevitabilmente, finisco col farmi condizionare. Poi, ci sono lettrici, lettori, anime con cui sento di avere tanto in comune. Tra i “progetti librosi” che porto avanti da anni ci sono #storiemilitanti, in cui si parla di vicende scomode e storie di resistenza, e #bioletterarie, con al centro le biografie di personaggi intriganti. In più si è da poco aggiunto #leggiamoicult con cui, da inizio anno, abbiamo già affrontato “4321” di Paul Auster e “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo. Ecco, tra storie vere, memoir e libri cult, facile attirare la mia attenzione».

In poco più di cinque anni, su Instagram “Spunti di lettura” ha catturato l’attenzione di 27.300 persone. Numeri tutt’altro che banali in un Paese che ha la fama di avere pochi lettori soprattutto tra i giovani. Stando ai dati Istat (relativi al 2021), il 41% degli italiani legge almeno un libro all’anno per motivi non strettamente scolastici o lavorativi e gli ultimi dati resi noti dall’Associazione Italiana Editori (AIE) il 7 marzo 2023, in occasione del Children’s Book Fair di Bologna, relativi ai primi mesi del 2023 dimostrano che nella fascia 4-14 anni sono il 96% i ragazzi e le ragazze che hanno letto almeno un libro non scolastico negli ultimi dodici mesi, contro il 75% del 2018. «Troppo spesso – commenta – viene data inutilmente la colpa ai giovani. Invece, sono proprio loro, soprattutto con certi generi, a trainare il mercato. La mia percezione personale è che il nostro vissuto personale abbia, come è ovvio, risentito tanto degli eventi degli ultimi anni e delle conseguenze che ne son scaturite. Il lockdown ha portato alla luce fragilità e insicurezze, ma anche la necessità di curare di più i nostri interessi, di dedicare del tempo a ciò che amiamo e che, ripetutamente, viene trascurato per star dietro a un sistema che si cura troppo poco dell’individuo in nome del solo profitto. In Francia si grida: “Vivre!”. Da noi, è ancora presto per urlare, ma, forse, si inizia a intuire quanto sia necessario rivendicare il nostro io. Nel mondo del quale desidero far parte c’è e ci sarà sempre posto per la lettura. Le possibilità nel 2023, poi, sono molteplici. Cartaceo, e-book, audiolibro: ce n’è per tutti i gusti. Io sono affezionata alla carta, ma non nego di aver sperimentato. Per esempio, trovo molto interessanti alcuni podcast che parlano di libri e che fanno inevitabilmente allungare la wishlist. Mi piace, poi, provare ad approcciarmi a nuovi modi di esprimere la propria passione. Su TikTok faccio ancora fatica a trovarne uno che sento mio, ma non mi tiro indietro e provo a stare al passo con i tempi e, soprattutto, a proporre titoli che siano meno mainstream per quel target lì. La chiave sta nel non chiudersi nella propria comfort zone e, come si dice sui social, nel tenere a bada il blocco, l’unico vero nemico di chi legge. In definitiva, finché ci saranno storie da raccontare io sarò sempre in prima fila. Magari cambierà il mezzo e, forse, cambierò io, ma la passione no, quella mi accompagnerà sempre».

Vittorio Maglione, morire per non diventare un camorrista

10 aprile 2009 – Ha affidato a MSN Messenger il suo addio. Come un messaggio in una bottiglia affidata all’oceano del web. E poi un biglietto, trovato sul tavolo: “Addio a tutti quelli che mi hanno voluto bene”. Parole di commiato e di affetto per tutti – per la mamma, per il fratello gemello, per gli amici – ma non per suo padre. Per lui solo poche frasi, domande più che altro: «Adesso sei contento? Non ti rompo più».

Ha quasi tredici anni, Vittorio Maglione, quando sceglie di farla finita. Figlio di Francesco Maglione (esponente di spicco del clan Ferrara, legato ai Mallardo e ai Casalesi), dopo aver scritto il suo messaggio, il 10 aprile 2009 ha legato una corda a una trave del soffitto della casa dove viveva con i genitori e un fratello gemello, a Villaricca, periferia di Napoli, e si è lasciato cadere da un tavolo.

Nel 2005 a Mugnano suo fratello maggiore Sebastiano – Bastiano, per gli amici -, che come il padre giovanissimo aveva intrapreso la strada del crimine, era stato ucciso a 14 anni dagli “scissionisti” di Secondigliano, reo di aver tentato di rubare il motorino alla persona sbagliata.

Una dichiarazione di intenti rivolta a suo padre quella nel suo messaggio di addio: «non voglio diventare come te». La scelta di non intraprendere una strada che, come aveva visto accadere per suo fratello, sembrava già segnata. Aveva scelto altro, Vittorio. Si era appassionato alla storia di Giancarlo Siani, il cronista de Il Mattino ucciso dalla camorra, cui era intitolata la scuola media che frequentava.

Non vedeva alternative se non la morte a quella strada in cui non si riconosceva e che probabilmente lo avrebbe portato, nel migliore dei casi, in carcere come il padre o a morire giovane come il fratello. É per costruire e rendere visibili queste alternative ai tanti Vittorio Maglione che dovrebbe lavorare una società e un Paese che vogliano davvero dirsi civili e realmente impegnati nel contrasto alle mafie.

“Quando” il nuovo film di Walter Veltroni che si e ci interroga sul valore della memoria

(Pubblicato su NAP – News Agency Press il 29 marzo 2023)

Si è addormentato tra le bandiere rosse e si è risvegliato tra le pareti bianche di un ospedale cattolico in un mondo totalmente cambiato e privo dei solidi punti fermi della sua intera esistenza. Comincia sulle note dell’Internazionale, che canticchia mentre riapre gli occhi dopo 31 anni di coma, la seconda vita di Giovanni Piovasco (magistralmente interpretato da Neri Marcoré), il protagonista di Quando”, il nuovo film di Walter Veltroni – tratto dall’omonimo libro omonimo dello stesso autore edito da Rizzoli nel 2017 – presentato in anteprima alla quattordicesima edizione del Bif&st – Bari International Film&Tv Festival (un omaggio – come spiega l’ex sindaco di Roma – al regista Ettore Scola, «una delle persone a cui ho voluto più bene, per questo ho pensato che questo film fosse giusto qui in quello che era il suo festival») e nelle sale dal 30 marzo con Vision Distribution. La prima era entrata “in pausa” nell’estate del 1984 quando in Piazza San Giovanni, durante i funerali di Enrico Berlinguer, appena diciottenne viene colpito accidentalmente alla testa dal bastone di uno striscione.

Quello di Giovanni è stato per tre decenni il tempo dell’assenza in cui il resto del mondo – compreso il suo corpo – continuava senza sosta ad andare avanti ma non la sua mente, i suoi ricordi e i suoi sogni. Il risveglio è ovviamente traumatico. Il mondo in sua assenza è cambiato: non siamo più negli anni Ottanta. Non ci sono più la lira, l’URSS, il muro di Berlino, il PCI e la DC. Berlusconi («ma chi, quello delle televisioni?») è stato presidente del Milan e poi del Consiglio dei Ministri, al posto della Libreria Rinascita oggi c’è un supermercato e Botteghe Oscure è solo un vecchio palazzo e non più «il centro di tutto». E non c’è più nemmeno Flavia (Olivia Corsini), la sua amata fidanzata dell’epoca. Gli avvenimenti che Giovanni ha perso nei lunghi anni di coma, infatti, non sono solo storici, politici e sociali ma anche strettamente personali: cosa ne è stato della sua amata, dei suoi genitori e dei suoi amici? Come sono andate avanti le loro esistenze mentre la sua era in stand-by?

Foto di Chiara Calabrò

Ad aiutarlo nel processo di riscoperta (o, come dirà lui stesso, a “ri-metterlo al mondo”) e a fargli da guida in questo mondo totalmente nuovo per lui ci saranno suor Giulia (Valeria Solarino), che si è presa cura di lui per anni anche durante la degenza, e Leo (interpretato poeticamente da Fabrizio Ciavoni), un giovane affetto da mutismo selettivo che conoscerà nella clinica in cui fa la riabilitazione. È uno scambio intenso e a tratti esilarante quello con il giovane, che con lui parla perché in lui rivede molte sue fragilità: Giovanni ha perso la parola per 31 anni dopo averne pronunciate tante anche per via del suo impegno politico. Leo, invece, a 18 anni ha la sensazione che nessuno lo ascolti. Sono a loro modo due diciottenni che trovano il loro linguaggio e il loro modo di parlare e capirsi. A Leo, oltre a quello di confrontarsi con il mondo per lui ignoto dei ricordi di Giovanni, spetta l’ingrato compito di far scoprire al “risvegliato”, anche attraverso il mondo della tecnologia e dei social, quanto avvenuto in questi ultimi tre decenni. Anche lo spettatore, attraverso lo sguardo ingenuo di un diciottenne che si risveglia nel corpo di un uomo ormai adulto, ri-scopre come è cambiato il mondo in questi anni, non avendone davvero una piena consapevolezza pur avendolo vissuto.

Lo spaesamento e le difficoltà dopo un lungo “sonno” non rappresentano argomenti nuovi per il cinema, italiano e non. Etichettato come il “Good Bye, Lenin!” all’italiana (con la non trascurabile differenza che il protagonista stavolta non viene tenuto all’oscuro di quanto avvenuto in sua assenza), il nuovo lavoro di Walter Veltroni allarga la sensazione di smarrimento di fronte al tempo che passa, quasi a travolgerci senza la nostra volontà e reale partecipazione, dal personale al generazionale e sociale. In maniera leggera, seppur didascalica, “Quando” si interroga e ci interroga sul valore della memoria come strumento per comprendere il passato e per guardare con più fiducia al futuro, anche dal punto di vista dei rapporti umani sempre più complicati nonostante il moltiplicarsi di mezzi di comunicazione.

Nel film si alternano momenti di riflessione e di ilarità grazie anche ai contributi, tra gli altri (il cast annovera la presenza di Gianmarco Tognazzi, Dharma Mangia Woods, Ninni Bruschetta, Anita Zagaria, Elena Di Cioccio, Carlotta Gamba, Luca Maria Vanuccini e la partecipazione di Massimiliano Bruno, Andrea Salerno, Luca Vendruscolo, Pierluigi Battista e Renato De Angelis) di Michele Foresta e Stefano Fresi che, seppur con un piccolo cameo, regalano ulteriore leggerezza al film. Magistrale la scena al ristorante proprio tra Marcoré e Fresi nei panni di un cameriere intento ad elencare i piatti del menù con termini assolutamente incomprensibili per il povero Giovanni (ma anche, ammettiamolo, per tutti noi) che vorrebbe una semplice carbonara almeno quanto vorrebbe tornare a quel mondo e a quella realtà semplice dei suoi diciotto anni in cui non c’erano i social e le avveniristiche tecnologie ma c’era posto per le idee, gli ideali e la comunità fatta di quei singoli che con il sogno di un mondo meno sbilenco e con meno ingiustizie e differenze sociali.

Foto di Chiara Calabrò

Quella di Giovanni è allo stesso tempo la storia di un dramma, di una vita che si cristallizza ancora giovanissima ma anche di una rinascita, di un ritorno al mondo con lo sguardo libero di un diciottenne che guarda alle cose con un candore e un’obiettività che noi, che le abbiamo vissute in prima persona, abbiamo perso essendone stati travolti. «Ho cercato di raccontare questa storia, tratta da un mio libro, intrecciando il percorso della comprensione di un mondo caotico e così diverso dal passato, dei mutamenti politici e tecnologici con quello della ricerca di affetti consumati dal tempo. Può essere una fiaba. Forse è un modo per parlare di questo tempo e di noi, oggi», spiega Veltroni.

Giovanni rappresenta una sorta di ago della bilancia tra un passato che non c’è più e un presente figlio di quel passato. Sostenendo con un trentennio di ritardo quell’esame di maturità per cui aveva studiato così tanto, si troverà a fare lui stesso un esame al mondo che in sua assenza è andato in una direzione, almeno apparentemente, tanto lontana da quella per cui da ragazzo si batteva. Un esame che non termina con una bocciatura ma bensì con una riflessione matura ed aperta sul tempo non come un’entità circolare ma come una striscia in cui si può correre tenendo, però, sempre presente gli ideali e i valori di solidarietà e non egoismo, di partecipazione solidale e consapevole alla comunità degli esseri umani.

Foto di Chiara Calabrò

Più che per un’ “operazione nostalgia” o un elogio retorico del “com’eravamo”, “Quando” cerca e reclama una speranza nel futuro da raggiungere con una maggiore consapevolezza di quello che è stato il passato. Speranza e ottimismo che passano attraverso gli occhi delle nuove generazioni – rappresentati nel film da Leo e Francesca (Dharma Mangia Woods) ma anche, in un certo senso, da Giovanni, Flavia e Tommaso (Gianmarco Tognazzi) da ragazzi – che possono a loro volta divenire artefici del cambiamento. A precisarlo è lo stesso regista che, nelle interviste a margine della presentazione del film al Bif&st 2023, ha dichiarato: «sono stato segretario di due partiti (DS e PD) che sono venuti dopo il PCI ma in questo film non c’è spazio per la nostalgia. C’è solo un sentimento personale. L’unica nostalgia esplicita si ha nella scena in cui Giovanni torna in sezione, dove si dice una frase importante: “le ideologie erano sbagliate, gli ideali no”. Ho nostalgia solo di quella meravigliosa luminosità di essere umani organizzati. Erano anni in cui si stava bene insieme perché si sentiva di stare dalla stessa parte. Per il resto non è vero che tutto è finito, tutto peggiorerà e che siamo pronti alla fine del mondo. Non è vero che finiremo per arredare il tunnel a furia di starci dentro. Credo che una luce fuori ci sia sempre». Un invito a guardare con tenerezza, commuovendosi o sorridendo, la fotografia ingiallita del passato ma anche, e soprattutto, a metterla da parte con coraggio per guardare a dove stiamo andando, senza chiudere gli occhi ma essendo ben coscienti di chi siamo e di chi vorremmo essere. Come individui e come società.

CENTOVENTISEI – un mafia-novel di Ezio Abbate e Claudio Fava

«A Palermo ci sono due specie di uomini: quelli che uccidono e quelli che muoiono». E il trentaduenne panormita Gaspare – che tutti chiamano Gasparo «perché a Palermo i nomi devono finire con la o. Gaspare pare il nome di una pulla» – appartiene senza dubbio alla prima categoria: fa il killer per conto di «Totuccio Graziano, quello che tutti chiamano Domineddio». Entra in scena senza fronzoli e senza nascondersi e si racconta in prima persona, è uno dei protagonisti di “Centoventisei”, mafia-novel firmato da Ezio Abbate Claudio Fava (Mondadori, 2022). Uno dopo l’altro arrivano gli altri co-protagonisti/voci narranti di questa vicenda: sua moglie Cosima, ventinove anni e un bambino in arrivo, Cristoforo detto Fifetto e una Centoventisei, che pur restando apparentemente muta, è destinata a fare molto rumore.

Si succedono uno dopo l’altro, come a fare un passo avanti su un immaginario palco per mettersi sotto l’occhio di bue per raccontare la storia dal proprio punto di vista e dal proprio vissuto. La scrittura, complici anche i precedenti da sceneggiatore per entrambi gli autori, è infatti molto teatrale, tanto che nella primavera 2023 il libro diventerà uno spettacolo teatrale prodotto dal Teatro Stabile di Catania e il Teatro Biondo di Palermo per la regia di Livia Gionfrida.

La vicenda si svolge quasi totalmente nell’arco di una calda notte palermitana, quella in cui Domineddio incarica Gasparo e Fifetto di una missione delicata che appare inspiegabile, squalificante e inutile al primo, ormai killer collaudato e avvezzo ad omicidi di cavalli e uomini («Una centoventisei, ripeto io, così piano che nemmeno mi sento. Ho ammazzato ventotto cristiani, con i cavalli ho perso il conto: perché non gliela fai rubare a tua sorella questa centoventisei? È quello che penso. Quello che dico invece sono cinque parole: va bene, una centoventisei, stanotte. “Ci vai con un altro”, aggiunge Graziano. In due per fotterci una macchina: che minchia vuol dire? E poi chi è questo qui? A me piace lavorare da solo” gli dico io cercando di tenere la voce bassa e dritta, mentre lo stomaco mi diventa un ribollimento di acidi, succhi e camurrie»), e insperata e miracolosa al secondo che dopo una vita di «tiri storti, camurrie, giri a vuoto» sogna di diventare finalmente un “picciotto”: rubare una Centoventisei e portarla in un garage dove, una volta ripulita da cima a fondo, andrà imbottita di tritolo.

Una Centoventisei, quella macchina che dà il titolo al romanzo e che, come la cronaca e la storia ci raccontano, caricata con 90 kg di tritolo, il 19 luglio del 1992 all’altezza del numero civico 21 di Via Mariano D’Amelio a Palermo, mette fine alla vita del giudice Paolo Borsellino e di cinque agenti della scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina). Un riferimento quello alla strage di Via D’Amelio che, però, non compare mai nel romanzo – tanto che non viene mai citato in alcun modo nemmeno il magistrato – e che gli autori lasciano fare al lettore, tenendolo sullo sfondo lontano e raccontandone, in maniera efficacissima e allo stesso tempo a tratti quasi sarcastica, quelli che sembrano esserne i preparativi.

Per una volta, infatti, la narrazione cambia punto di vista. Porta il lettore dall’altra parte, quasi un prequel degli eventi che cronaca, storia, vicende processuali, romanzi, spettacoli teatrali, fiction e film ci raccontano nei modi e con i linguaggi più disparati da quella sanguinosa estate del 1992. C’è il racconto della mafia, della vita di chi ‘opera’ nella mafia con le sue consuetudini, il suo galateo e le sue irregolarità che passa, però, attraverso la vita di quelli che sembrano a conti fatti tre “poveri Cristi”, consapevoli ciascuno a suo modo del contesto criminale in cui vivono. Sono pesci piccoli, totalmente ignari del destino di quella automobile e del loro. C’è nelle pagine del romanzo, nonostante la loro rassegnazione a un mondo piccolo con dinamiche ormai consolidate, il loro continuare a sognare un salto di qualità delle loro vite. Se per Fifetto è la possibilità di far carriera nella mafia, per Cosima prende sostanza in quel figlio di cui, dopo diversi aborti spontanei, aspetta la nascita come un miracolo che si assolutamente deve compiere tanto da chiedere a Gasparo il ‘voto’ di non compiere omicidi fino alla fine della gravidanza («Adesso per esempio mi ha promesso che se ne sta buono, che prima vuole fare nascere il bambino. Io gli dico va bene, ti credo, ma quando sono sola mi vado a controllare l’armadio a muro. Alzo la coperta, alzo il piumone: se il fucile a pompa lo trovo lì, al posto suo, sono tranquilla») per non indispettire quel Padreterno che, secondo lei, le ha fatto perdere gli altri figli come ‘punizione’ per la condotta malavitosa del consorte che lei finge di non conoscere preferendo vedere l’umanità del suo Gasparo: «mio marito è un mafioso. Ma è pure un bravo cristiano, un lavoratore, uno che si toglie gli occhi dalla faccia per farmi stare bene. Solo che il suo lavoro è quello: fare cose tinte. Le faceva pure quando l’ho conosciuto. All’inizio però non mi voleva dire niente. [..] Una cosa è sapere che tuo marito fa il mafioso. Un’altra è sapere tutte le cose tristi che gli tocca fare. Lui non me le dice, io non gliele chiedo. E quando se ne va faccio finta di dormire».

C’è la loro umanità, disarmante e ‘normalissima’, tra le pagine del lavoro di Fava e Abate e in ciò è sicuramente funzionale la scelta della narrazione in prima persona e la scrittura ‘teatrale’ perché eliminando la presenza del narratore toglie ogni rischio di giudizio. Non c’è, infatti, né condanna né assoluzione per i personaggi. C’è soltanto la loro vita, in scena. Le loro piccole vite nel piccolo spazio di quei pochi giorni e degli attimi di quella lunga e calda notte in cui avviene il furto.

Una notte in cui si alternano dis-avventure rocambolesche condite da equivoci e colpi di scena che rubano talvolta anche un sorriso fino ad un finale inaspettato per i protagonisti, tutti tranne per quella Centoventisei che, dopo le mille peripezie, torna silenziosa al suo ‘dovere’ «sotto il sole di Palermo, una domenica di luglio, nella luce calda del pomeriggio. Parcheggiata, in attesa di fare il compito suo. Ogni cosa è tornata al suo posto» in quella città in cui «disgrazie non ne succedono. Succedono cose, che è un’altra storia».

Una lettura scorrevole e intrigante, impreziosita dal glossario – per non siculofoni – dei termini in dialetto – che non ostacolano comunque né la lettura né la comprensione ma, anzi, ne colorano e rendono vivide le immagini, i suoni, gli odori e le emozioni evocate – posto al termine del volume.

In guerra per amore. Pif/Giammarresi alla conquista della Sicilia


Paese di produzione Italia
Anno 2016
Durata 99 min
Genere commedia, drammatico, sentimentale, guerra
Regia Pif
Soggetto Pif, Michele Astori
Sceneggiatura Pif, Michele Astori, Marco Martani
Produttore Mario Gianani, Lorenzo Mieli, Fausto Brizzi

Siamo quasi alla fine della Seconda guerra mondiale, gli americani sbarcano in Sicilia.. senza bombe e senza pistole. Ad aprire loro la strada, a modo suo, un uomo potente, molto potente: Salvatore Lucania meglio noto come Lucky Luciano. Lo sbarco alleato, infatti, viene “facilitato” dalla mafia che poi ovviamente chiede e ottiene la sua contropartita consolidando in maniera assolutamente legalizzata il suo potere lasciando strascichi ancora oggi. Una trattativa con la mafia ante litteram, la scelta di una strategia che significò «consegnare la Sicilia per lungo tempo ai poteri criminali».

Il movente narrativo è una storia semplice, una storia d’amore narrata in prima persona. Ancora “Giammarresi, Arturo Giammarresi” (già protagonista con abiti e in epoche diverse del precedente film di Pif) alle prese con la conquista del cuore della sua amata Flora. Arturo, che dagli USA deve andare a chiedere la sua mano al padre di lei che vive in Sicilia per evitare che la sua bella vada in sposa al figlio di un boss italo-americano cui lo zio di lei l’ha promessa, si arruola per la guerra e per lo sbarco in Sicilia. Una storia semplice – lui, lei, l’amore contrastato – che si cala in una storia molto molto più grande e che diventa scusa per il racconto della storia con la S maiuscola. In piena conformità con la lezione di Ettore Scola, cui il film è dedicato. Tanti gli omaggi più o meno espliciti nel film, da ‘Forrest Gump’ a ‘La vita è bella’ passando per gli scatti di guerra di Robert Capa. Notevole e delicato anche l’accenno alla tematica omosessuale («Ci trattano già come scarti, io perché sono cieco, tu perché sei zoppo. Non ci possiamo permettere di essere pure ’arrusi’»).

Un film che porta sullo schermo una pagina di Storia sconosciuta ai più e lo fa senza mettersi in cattedra ma con la leggerezza quasi scanzonata ma mai banale né volgare. Una galleria di personaggi anche surreali e teneri (il piccolo Sebastiano che in attesa del ritorno del padre che non tornerà mai dalla guerra canta senza tregua quella canzone di un asino volante di cui non conosce le parole ché la censura fascista insieme alla guerra gliele ha cancellate, la vecchietta che fa a gara col nonno del bambino nella corsa al rifugio imbracciando la sua statua della Madonna mentre lui imbraccia la statua di Mussolini, i due vagabondi del paese sempre in coppia come il gatto e la volpe, etc). Va in scena in Rapporto Scotten, documento e pagina del nostro paese sconosciuta ai più: «1943: the Problem of mafia in Italy». Va in scena la guerra, la Liberazione e la “democrazia” ritrovata ma solo in parte come lo stesso neosindaco di Crisafullo proclama nel suo comizio di insediamento (da ascoltare bene ché ha molto da raccontarci anche sulla situazione attuale e racconta molto della filosofia della DC in Sicilia). Si fanno chiari e tondi nomi e cognomi.. Ciancimino, Sindona e compagnia cantando.

Il racconto di un fatto, di una storia con un linguaggio e un tono che è accessibile a tutti. L’arte che parla a tutti, indistintamente. Mi vengono in mente a questo proposito – ma forse la connessione è un po’ ardita – i versi di Majakovskij: “Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada”.


Risate garantite sugli stereotipi siculi (dall’onore della figlia illibata macchiato da due masculi e un asino, al lutto da portare ché altrimenti la gente chissà cosa può pensare,etc). Fotografia, sceneggiatura e scenografia/ambientazione (amici/che della terra sicula, sto fantomatico paese Crisafullo è nel trapanese o le saline e i mulini mi trassero in inganno??) notevoli. Ché in fondo tutti aspettiamo di vedere, prima o poi, un asino che vola. Come diceva il buon Quinto Orazio Flacco, del resto.. Ridentem dicere verum: quid vetat?

𝑴𝑬𝑻𝑶𝑫𝑶 𝑭𝑨𝑳𝑪𝑶𝑵𝑬, 𝑵𝑶𝑵 𝑺𝑶𝑳𝑶 “𝑭𝑶𝑳𝑳𝑶𝑾 𝑻𝑯𝑬 𝑴𝑶𝑵𝑬𝒀” / 𝑰𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒊𝒔𝒕𝒂 𝒂 𝑵𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒂𝒍𝒍𝒂 𝑪𝒉𝒊𝒆𝒔𝒂

SABATO 21 MAGGIO 2022 11.40.50
𝐀𝐍𝐍𝐔𝐍𝐂𝐈𝐀𝐓𝐎 / 𝐒𝐏𝐄𝐂𝐈𝐀𝐋𝐄 𝐒𝐔 𝐆𝐈𝐎𝐕𝐀𝐍𝐍𝐈 𝐅𝐀𝐋𝐂𝐎𝐍𝐄 𝐄 𝟑𝟎 𝐀𝐍𝐍𝐈 𝐃𝐀 𝐒𝐓𝐑𝐀𝐆𝐄 𝐃𝐈 𝐂𝐀𝐏𝐀𝐂𝐈
> ZCZC IPN 189 POL –/T ANNUNCIATO / SPECIALE SU GIOVANNI FALCONE E 30 ANNI DA STRAGE DI CAPACI ROMA (ITALPRESS) – Si avvisano gli abbonati che oggi l’agenzia Italpress, in vista del 30esimo anniversario della strage di Capaci, manderà in rete uno speciale con i seguenti articoli:
[..]
– 𝑰𝑳 𝑴𝑬𝑻𝑶𝑫𝑶 𝑭𝑨𝑳𝑪𝑶𝑵𝑬, 𝑵𝑶𝑵 𝑺𝑶𝑳𝑶 “𝑭𝑶𝑳𝑳𝑶𝑾 𝑻𝑯𝑬 𝑴𝑶𝑵𝑬𝒀” / 𝑰𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒊𝒔𝒕𝒂 𝒂 𝑵𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒂𝒍𝒍𝒂 𝑪𝒉𝒊𝒆𝒔𝒂 (Valentina Ersilia Matrascia)
[..]

– 𝑰𝑳 𝑴𝑬𝑻𝑶𝑫𝑶 𝑭𝑨𝑳𝑪𝑶𝑵𝑬, 𝑵𝑶𝑵 𝑺𝑶𝑳𝑶 “𝑭𝑶𝑳𝑳𝑶𝑾 𝑻𝑯𝑬 𝑴𝑶𝑵𝑬𝒀” / 𝑰𝒏𝒕𝒆𝒓𝒗𝒊𝒔𝒕𝒂 𝒂 𝑵𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒂𝒍𝒍𝒂 𝑪𝒉𝒊𝒆𝒔𝒂 (Valentina Ersilia Matrascia per ITALPRESS)

«È qualcosa di molto più complesso di quello che è passato nel senso comune. Questa rappresentazione di Giovanni Falcone soltanto come un segugio che si muove sui conti delle banche lo mortifica». Non ci sta il sociologo, docente universitario e presidente onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa, al racconto di un ‘metodo Falcone’ basato esclusivamente sull’ormai celeberrimo quanto abusato ‘follow the money‘ (trad. ‘segui il denaro‘, ndr). «Certo – aggiunge in un’intervista esclusiva all’Italpress – è importante perché allora i magistrati sapevano poco o nulla di bilanci, ragioneria e geografia fiscale mentre Falcone, fresco di diritto civile e esperto in materia fallimentare, quando arriva da Trapani a Palermo e si trova davanti a processi per narcotraffico sa come operare, sa leggere bilanci e movimenti di denaro. È chiaro, però, che non si esaurisce a questo».

Se, senza dubbio, nell’intuizione di analizzare e ricostruire i movimenti di denaro – che, a differenza di droga e cadaveri, lasciano sempre una traccia – per identificare e perseguire le attività criminali c’è una tecnica investigativa rivoluzionaria seppur basata su un principio semplice, c’è molto di più nel metodo introdotto dal magistrato ucciso da Cosa Nostra 30 anni fa nella strage di Capaci. C’è la «capacità di ricostruire – spiega – i rapporti tra persone, ambienti e delitti, di analizzare il contesto e non isolare i fatti ma collegarli tra loro, il collegare l’arma che ha sparato in un’occasione con il suo proprietario in un’altra. Una vera rivoluzione per un diritto pigro che voleva sempre la pistola fumante e a cui spesso, anche quando c’era, non bastava nemmeno».

Uno sconvolgimento profondo anche nell’approccio con il lavoro giudiziario, fatto di una visione unitaria del fenomeno mafioso e delle sue ramificazioni, oltre che nell’interpretazione del proprio ruolo dentro le istituzioni «perché il metodo con cui lavorano le persone si definisce in rapporto all’indipendenza con cui lo fanno, scegliendo ogni giorno di restare indipendenti o di rispondere a centri di potere». Un principio intriso di quell’etica professionale profonda e di quel «temperamento che lo portarono a resistere e a non arretrare nemmeno di fronte alle umiliazioni. Falcone ha trasmesso ai quadri dell’amministrazione e della giustizia un livello di consapevolezza nuovo e totalmente diverso. Ci sono magistrati e prefetti che non l’hanno mai conosciuto a cui comunque è arrivato quel lascito. La lezione di Falcone è passata».

A livello investigativo, «l’eredità di Falcone rappresenta la capacità di usare anche gli orizzonti internazionali. Sempre di più le nostre forze dell’ordine sanno guardare fuori confine. Del resto, le stesse organizzazioni criminali si spingono sistematicamente oltreconfine». Vie internazionali come quelle seguite dai capitali mafiosi. «I soldi delle mafie oggi, con le tecniche di occultamento rese più impermeabili e un livello di anonimato più alto grazie alle criptovalute, Falcone li seguirebbe ovunque ci siano paradisi fiscali. Il nostro guaio è che ormai anche alcuni Stati cominciano a comportarsi come tali. Inghilterra, Lussemburgo e Olanda, per esempio, aspirano ad essere il nuovo centro finanziario del mondo, mettendosi al servizio dei bisogni di riciclaggio dei capitali da qualunque parte vengano. È necessario che l’Unione Europea intervenga».

Colpire beni e capitali mafiosi, anche attraverso la confisca e il sequestro, si conferma uno strumento importante. «La mafia – spiega – soffre lo sfregio di vedersi togliere dei beni, tanto che a volte li occupa e li vandalizza solo per riaffermare il suo potere e ribadire “questa è roba mia”. Dovrebbe essere usato di più, non capisco perché ci siano beni confiscati abbandonati e inutilizzati. Serve una dimostrazione di forza da parte dello Stato».

«Cosa resta di Falcone uomo e magistrato? Un’eredità molto forte che sento molto. I miei grandi maestri – conclude emozionato Dalla Chiesa – sono stati mio padre e Falcone. Gli devo molto della mia formazione, perché ritengo e rivendico che il mio stesso corso a Milano sia una sua eredità, ma anche, come figlio di vittima di mafia, perché se c’è stato il maxiprocesso e se, per mio padre, c’è stata giustizia, lo devo a lui, a Borsellino e ovviamente a Caponnetto».

Un insegnamento, quello di Falcone, tanto apprezzato all’estero quanto ‘latitante’, secondo il sociologo, nelle facoltà di giurisprudenza delle università italiane. Lì dove si formano i futuri magistrati «il metodo Falcone non è molto studiato. Anzi, ci sono corsi in cui la mafia non si nomina nemmeno, me lo hanno raccontato piangendo studenti che si erano iscritti a giurisprudenza per fare i magistrati e occuparsi di mafia: quattro anni che sono lì e non hanno sentito nessun professore nominarla. Perché? È finita a giurisprudenza, non nelle singole università, la spinta scaturita dal trauma del 1993 per cui uno andava a fare il magistrato sperando o sognando di emulare Falcone e Borsellino».

“A scuola per mare” per cambiare rotta alla dispersione scolastica

© Pagina Fb – A scuola per mare

«Avevo un problema con la scuola. Non ci andavo e quando ci andavo non riuscivo a stare sul pezzo, mi distraevo sempre. Avevo bisogno di libertà, mi sentivo chiusa dentro una gabbia». La libertà, per Cecilia, si chiama Lady Lauren, una barca a vela di 22 metri a due alberi capace di ospitare otto persone più l’equipaggio, su cui ha trascorso quasi due mesi. Cecilia, 18 anni compiuti da poco, è una degli otto partecipanti all’edizione 2020 di “A scuola per mare”, progetto nazionale che ha l’obiettivo di contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica.

Un’iniziativa promossa dall’associazione di promozione sociale I Tetragonauti onlus, selezionata e cofinanziata dall’impresa sociale Con i bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, che coinvolge cinque regioni (Sicilia, Lazio, Lombardia, Sardegna, Campania) ed è indirizzata ad adolescenti, tra i 14 e i 18 anni, che “hanno incontrato difficoltà a seguire con profitto il ciclo di studio o di formazione”, anche se momentaneamente all’interno del circuito penale minorile.

Cinquanta giorni di navigazione con partenza da San Vincenzo (LI) (per la pandemia si è ridotta la durata standard del progetto che è di 85/100 giorni suddivisi in tre fasi: pre-navigazione, navigazione e post-navigazione) che hanno rappresentato un cambio di rotta decisivo nella sua vita. Tornata sulla terraferma ha superato – con 70/100 e i complimenti dei commissari, ci tiene orgogliosamente a sottolineare – l’esame di maturità, conseguendo il diploma in biotecnologie sanitarie e ora guarda al futuro e, perché no, all’università. «Non ho ancora le idee chiare, ho guardato un po’ i vari siti delle università ma non ho ancora deciso. Psicologia però mi incuriosisce parecchio», racconta.

© Pagina Fb – A scuola per mare

La sua è una storia di fiducia ritrovata. In sé, nel futuro e nell’istituzione scolastica che rischiava di perderla per strada come il 13,1% di giovani in Italia (elaborazione Openpolis su dati Eurostat). L’Italia è il quarto stato europeo per abbandono scolastico: sono 543 mila i ragazzi, tra 18 e 24 anni, che nel 2020 hanno lasciato la scuola senza avere conseguito il diploma. Solo Malta (16,7%), Spagna (16%) e Romania (15,6%) nello stesso anno registravano una percentuale più alta. Se già prima della pandemia il 15% degli studenti usciva dal sistema scolastico in anticipo, il Covid ha peggiorato la situazione. «L’emergenza Covid ha messo in grave difficoltà molti ragazzi allargando la forbice della diseguaglianza educativa», spiega Gabriele Gaudenzi, ideatore del progetto, che dal 2003 con I Tetragonauti accompagna i giovani in esperienze di crescita e maturazione in mare. «I minori in condizioni di fragilità socio-economica – aggiunge – hanno pagato il conto più pesante per i tanti mesi di didattica a distanza. Il nostro obiettivo è dare loro una mano e offrire un’opportunità. L’esperienza maturata in diciotto anni di attività in mare con i ragazzi insegna che questo strumento funziona e dà concreti risultati».

La scuola di provenienza e gli insegnanti vengono coinvolti nel percorso formativo grazie all’intervento dei referenti territoriali delle associazioni (Arcobaleno Cooperativa Sociale Tuscolana di Solidarietà Frascati, Associazione Centro Koros Catania, A.P.S. Un Ponte nel Vento Ischia, A.P.S. Giovani per il Sociale Porto Torres, Associazione Antonia Vita – Carrobiolo Monza) che collaborano al progetto e seguono i ragazzi nella fase precedente e in quella successiva alla navigazione. «La didattica a distanza (DAD) in questo caso ci ha aiutato perché Cecilia era uguale a tutti i suoi compagni visto che nessuno era in presenza», racconta Gaudenzi. «Organizziamo – aggiunge – incontri preliminari con gli insegnanti e la scuola perché, essendo il nostro un progetto a contrasto della dispersione scolastica, non possiamo tagliarli fuori dal percorso scolastico. Costruiamo insieme agli insegnanti, con più o meno fatica, dei percorsi alternativi».

© Pagina Fb – A scuola per mare

Un “lascito positivo” della DAD, insomma. Se fino a qualche anno fa non erano poche le difficoltà per fare accettare ad alcuni insegnanti la possibilità di verifiche a distanza, oggi è la normalità. «Che siano connessi da casa o dalla barca non fa differenza. Questo, senza dubbio, ci ha facilitato perché anche se i ragazzi non riescono a partecipare a tutte le lezioni troviamo un accordo con gli insegnanti per un calendario di presenze concordate e provvediamo ad un itinerario che ci consenta di garantire la partecipazione alle lezioni e alle verifiche programmate. Il percorso non solo non è contato come assenza ma spesso, quasi sempre, viene valorizzato dalla scuola ed è considerato o come alternanza scuola-lavoro o come credito formativo», conclude.

© Pagina Fb – A scuola per mare

A bordo, però, la didattica è a 360 gradi. Tra le onde e il vento nel lungo viaggio attraverso il Mar Tirreno si tengono lezioni di biologia marina ma anche di rianimazione cardiopolmonare e di sub – che hanno permesso a tanti ragazzi di conseguire il brevetto per l’attività subacquea – passando per le escursioni e gli incontri sulla legalità e lotta alla mafia. In programma una settimana di navigazione integrata con un gruppo di coetanei disabili e la partecipazione alla campagna “Back to Life”, organizzata in collaborazione con l’Acquario di Genova per il contrasto all’abbandono della plastica in mare.

La barca diventa il contesto privilegiato in cui si sperimentano affiatamento e fiducia reciproca, s’impara a stare insieme e a collaborare, a rispettare le regole e ad assumersi delle responsabilità. La sveglia al mattino è fissata alle 8 («anche se certe volte prima delle 9 è impossibile tirarli giù dal letto», confessa Gaudenzi sospirando), per le pulizie e la cucina si segue una tabella di turni ben precisa. Sigarette e cellulari sono contingentati ma dopo i primi giorni di adattamento sono gli stessi ragazzi, presi dalle tante attività, a non sentirne più la necessità assillante preferendo alla navigazione su internet quella sulle onde del mare.

ROMA, 24 NOVEMBRE 2021 – TESINA Esame di abilitazione alla professione giornalistica (Sessione 133)

“Letizia Battaglia e la sua Palermo bambina che guarda al futuro”

Correva il mese di marzo dell’anno 2017 ed ero una giovanissima redattrice di Pride Online, una nascente testata online che affrontava temi legati al mondo Lgbtqi+ e non solo. C’era posto per le tematiche di genere come per il sociale e la cultura tra quelle pagine. Anche per una lunga intervista ad una fotografa ribelle e fuori dagli schemi, una donna conosciuta e riconosciuta in tutto il mondo per il suo talento, le sue idee e la sua arte. L’aspettai a lungo Letizia Battaglia dopo la conferenza, l’aspettai da giovane cronista imbranata e timida (un po’ più di faccia tosta l’ho acquisita ormai..) ma anche da ammiratrice estasiata da quella donna che a tratti era un tutt’uno con la sua immancabile sigaretta e la sua macchina fotografica. Rannicchiata accanto alla sua sedia al termine della cena del suo compleanno, mentre Letizia mi sorrideva con una tenerezza assurda, riuscii nell’intento e ne uscì questo pezzo che conservo come un prezioso ricordo di un bell’incontro.


“Letizia Battaglia e la sua Palermo bambina che guarda al futuro” – marzo 2017

© Valentina Ersilia Matrascia

La fotoreporter palermitana racconta la sua vita, la sua professione e il suo impegno civile e sociale in un incontro presso la Casa Internazionale delle Donne

«Sono una fotografa ma soprattutto una donna che fa fotografie». È lapidaria e diretta Letizia Battaglia. La fotoreporter palermitana ieri pomeriggio ha incontrato il pubblico romano, che dal 24 novembre scorso affolla le sale del MAXXI in cui fino al 17 aprile è in mostra una corposa retrospettiva della sua opera, durante un’iniziativa presso la Casa Internazionale delle Donne. Una sala gremita, di donne e uomini di ogni età, per incontrare l’artista che con i suoi scatti ha raccontato le strade, i corpi, gli sguardi, l’orgoglio e la vita di una Palermo martoriata dalla mafia. Solo posti in piedi o accalcati alle porte, in pochi minuti la sala si riempie.

Incanta l’intera platea per oltre due ore raccontando l’impegno civile e la passione di anni di giornalismo al quotidiano L’Ora e di fotografia, come quelle che sorridendo scatta alla platea. L’amore viscerale e mai sopito per la sua città così martoriata e sofferente negli anni delle guerre di mafia. Quella Palermo in cui spesso è impossibile fotografare la bellezza perché tanto sovrastata e coperta dall’orrore. «Ci sono figlie che amano madri puttane. Io amo Palermo terribilmente e con rabbia. È per questo che sono rimasta. La bellezza? È la giustizia, niente di più», risponde tenace a chi dal pubblico le chiede come si fa ad amare un ‘inferno’ come Palermo e la Sicilia.

Racconti carichi di ironia e di vissuto spesso doloroso, come le difficoltà degli inizi («Ho preso tanti calci, non era facile per le donne. Già i fotografi tra di loro in generale son terribili ma se sei una donna ti fanno proprio volare come un fuscello. Per tanti anni ho faticato per farmi rispettare e per farmi ben retribuire il lavoro, che nei giornali era pagato pochissimo e neanche tanto riconosciuto perché chi decideva sulla foto era il giornalista non il fotografo. Per anni non ho saputo cosa fossero le ferie e le vacanze, durante le feste dovevo lavorare per fotografare quelli che brindavano»). «È stato determinante – racconta – vivere a Palermo, essere presente in quegli anni. Avrei preferito che quelle tragedie non ci fossero state, ma dal momento che ci sono state è stato un bene che io ci fossi e che le abbia documentate. Non ero un’inviata che andava a raccontare una guerra e poi se ne andava. Ero a casa mia e le cose che avevo intorno e che raccontavo erano orribili. C’è stato un momento in cui ho pensato di bruciare tutte le mie foto e i negativi, l’ho fatto ma in un modo diverso. Ne ho ‘distrutto’ il significato inserendo un elemento nuovo, mio. Con queste ricostruzioni, sposto il punctum da un cadavere al pube di una donna, dalla morte alla vita».

Una vita, quella di Letizia Battaglia, segnata dai suoi scatti che l’hanno resa celebre in ogni parte del mondo ma ancora prima dall’impegno sociale e civile che, come lei stessa spiega, non passa necessariamente attraverso l’arte ma nella voglia di cambiare le cose. È fotografa ma anche editrice (Edizioni della battaglia, con la ‘b’ minuscola, ci tiene a sottolineare), assessora nella giunta di Leoluca Orlando dal 1986, deputata dell’Assemblea regionale siciliana nel 1991 con La Rete, fondatrice di una rivista al femminile (“Mezzocielo”) insieme a Simona Mafai, sorella di Miriam. Una giovane donna di 82 anni che guarda al futuro: «Ho 82 anni ed è una bellissima cosa. Mica ce l’avete solo voi giovani il futuro, ce l’ho anche io! E nel mio futuro c’è il Centro internazionale della fotografia a Palermo» che dopo 5 anni di attesa, grazie anche all’interesse del sindaco panormita Leoluca Orlando, sarà inaugurato tra poche settimane e di cui sarà la direttora.

© Letizia Battaglia

Un futuro, quello cui guarda Letizia Battaglia, che trova spazio negli occhi delle bambine cui sta dedicando un progetto fotografico. Sarebbe proprio quella di una bambina l’immagine che sceglierebbe per rappresentare Palermo: «una bambina con gli occhi ben aperti che guarda dritta con fierezza davanti a se. Palermo è una bambina che guarda al futuro. Credo molto nei bambini, nelle bambine. Sono in un’età in cui stanno crescendo e guardano il mondo con occhi diversi. A quell’età è possibile, possibile che si possa essere migliori».

E nel futuro del capoluogo siciliano c’è posto per una Letizia Battaglia impegnata anche se non più nei banchi dell’Ars o del municipio cittadino. «Sono vecchia, ho 82 anni e la politica.. con il cuore mi piacerebbe tanto, con il cuore, continuare ad amministrare le cose di una parte di Palermo ma capisco che la politica ha bisogno di nuova linfa. Io faccio la fotografa, diamo un ruolo ai giovani, sono loro il futuro».

Un futuro che non prescinde però dalla memoria e dal passato. Cosa ne sarà dell’immenso archivio fotografico e documentale messo insieme in questi 40 anni di lavoro? «Non lo so: o lo brucio o trovo un posto dove venga conservato e continui a raccontare quel che è successo negli anni». Dalla sala arriva il suggerimento della creazione una fondazione, purché reclamano a gran voce non venga perso e, possibilmente, resti a Palermo perché fa parte della storia della città.

Settimana del baratto

Offro bicicletta e posate per una vacanza in B&B

Da tredici anni – salvo lo stop dello scorso anno dovuto alla pandemia – la terza settimana di novembre è nel segno dello scambio. Oltre mille i Bed and Breakfast che quest’anno dal 15 al 21 aderiscono alla “Settimana del baratto”, sette giorni in cui è possibile alloggiare gratuitamente in strutture ricettive “pagando” con beni e servizi. Dalle stoviglie ai massaggi, tutto diventa moneta.

«L’idea ci è venuta leggendo di una struttura in Sardegna che, invece di farsi pagare in soldi, si faceva pagare in beni e servizi», racconta Clara Corallo, responsabile marketing di Bed-and-Breakfast.it, portale promotore dell’iniziativa nato in Sicilia che si è poi esteso a tutta la penisola. «Ci è sembrata – aggiunge – un’idea interessante da proporre alle nostre strutture che si sono dimostrate subito disponibili. Ogni anno se ne aggiungono di nuove». Entusiasmo condiviso anche dagli ospiti. «Tra gli oggetti da barattare sono sempre più numerosi i prodotti tipici della propria terra, soprattutto se ci si sposta in altre regioni. Ma c’è spazio per qualunque cosa. Un b&b dell’Isola d’Elba, ad esempio, è alla ricerca di forchette in argento silver per arredare la propria sala-colazioni in stile shabby chic». La settimana di minor afflusso turistico dell’anno si trasforma, in questo modo, in un’opportunità per viaggiare e scoprire nuove città oltre ad una possibilità di scambio umano e culturale.

Dal Trentino alla Sicilia ogni anno si aggiungono nuove strutture aderenti e si arricchisce la domanda e l’offerta di servizi e oggetti. Una settimana sulle Alpi vicentine può “costare” una seduta di allineamento armonico vertebrale mentre una bicicletta adatta al gestore, alto quasi due metri, di un b&b di Montepulciano può valere diverse notti di pernottamento nelle colline senesi. Basta qualche click e navigando tra i desiderata dei vari gestori si può scegliere la propria destinazione ma è possibile anche, contattando direttamente la struttura, avanzare la propria proposta.

«Negli ultimi anni – continua la responsabile marketing – stiamo assistendo a una virata nei confronti del virtuale. Sono sempre più numerose le strutture che chiedono social media manager o esperti del web e della comunicazione che possano dare suggerimenti e aiuto nella creazione di un profilo social o di un sito. È un mercato al passo coi tempi». Richiestissimi anche gli artisti, giocolieri e circensi. Un’idea vincente tanto che alcune strutture hanno deciso di estenderla a tutto l’anno attraverso il sito BarattoBB.it. Da quest’anno, in occasione del decennale, l’iniziativa supera i confini nazionali e con uno spin-off si estende a tutto il mondo, coinvolgendo sempre nuovi paesi e strutture, con ottimi riscontri dall’Albania all’Uganda.

Per info, domande e curiosità sulla Settimana del Baratto 2021 basta andare sul sito www.SettimanadelBaratto.it.